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IL RICICLAGGIO E I «REATI-PRESUPPOSTO»

Ciò che rende il riciclaggio particolarmente preoccupante è – tra le tante sue sfaccettature – l’essere collegato funzionalmente ad altri fenomeni illeciti di eguale rilievo sociale ed economico, come l’evasione fiscale, l’usura, le frodi informatiche, i movimenti transfrontalieri clandestini di capitali, le forme di abusivismo finanziario, il ricorso ai «paradisi finanziari» ed il finanziamento del terrorismo.
La Convenzione del Consiglio d’Europa sul riciclaggio, firmata a Strasburgo l’8 novembre 1990, modificata dalla Convenzione di Varsavia del 16 maggio 2005, individua il reato presupposto in «qualsiasi reato in conseguenza del quale si formano proventi che possono diventare oggetto di uno dei reati definiti dall’articolo 9 della presente Convenzione». Da tale definizione emerge che tutti i reati da cui scaturiscono proventi suscettibili di valutazione economica sono considerati potenziali reati presupposto del riciclaggio. Appare chiara dunque la volontà del legislatore di limitare la conversione, l’occultamento, il trasferimento, la dissimulazione o il reinvestimento di proventi di origine illecita.
Ciò detto a livello internazionale, il legislatore italiano ha recepito in parte quanto statuito dalla Convenzione di Strasburgo, stabilendo, all’art. 648-bis, che il denaro, i beni e le altre utilità debbano provenire da delitto non colposo.
Come facilmente intuibile, proprio in relazione al concetto di «provenienti da delitto non colposo», sono sorte più dispute in dottrina e giurisprudenza. Tra dette dispute è stata particolarmente accesa quella relativa al rapporto tra riciclaggio di denaro e reati tributari.
La giurisprudenza di legittimità, già prima delle modifiche legislativa intervenute sul punto, aveva sancito che il termine «provento» si sarebbe dovuto interpretare in modo estensivo, «comprensivo di ogni ipotesi nella quale sia da riconoscersi la immanenza della provenienza del denaro da quei delitti per la inidoneità dei precedenti sistemi usati a fargli perdere siffatto carattere».
Con l’ampliamento del novero dei reati suscettibili di dar luogo a proventi riciclabili, l’interpretazione del concetto di provenienza è divenuto più complesso. La discussione si è concentrata sull’inclusione, nel concetto di provenienza, del prezzo, prodotto e profitto del reato.
In proposito, la Suprema Corte, con decisione a Sezioni Unite, ha sancito, in sintesi, che «deve ritenersi pacifica in dottrina e in giurisprudenza la definizione dei concetti di prodotto, profitto e prezzo del reato contenuti nell’articolo 240 del codice penale. Il prodotto rappresenta il risultato, cioè il frutto che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita; il profitto è costituito dal lucro (…); il prezzo, infine, rappresenta il compenso dato o promesso per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato (…).».
Particolarmente «preoccupante» la relazione tra il reato di riciclaggio e quello (presupposto) di usura.
Infatti, oltre all’accomunante radice criminale, non occorre sforzarsi molto per comprendere che l’usura costituisce uno dei canali principali per reimpiegare il denaro illecitamente percepito. Mediante questa forma di reimpiego, che spesso viene attuata costituendo delle finanziarie ad hoc, che effettuano l’attività di finanziamento ad una vasta platea di clienti, il denaro illecito frutta due volte, garantendo contemporaneamente alti profitti e rischi minimi.
Infatti, è stato osservato che «il rapporto tra riciclaggio e usura è triplice: in primo luogo, l’organizzazione criminale utilizza i fondi da riciclare per erogare credito usuraio […] In secondo luogo, attraverso il credito d’usura, l’organizzazione criminale è in grado di acquisire imprese legali, poi utilizzate per il riciclaggio […] Infine, il rapporto tra riciclaggio ed usura può nascere dai vantaggi derivanti da economie esterne che l’usura procura all’organizzazione criminale, in termini di controllo del territorio […] L’usura da riciclaggio costituisce inoltre, come ogni tecnica di ripulitura, una leva finanziaria per le organizzazioni criminali».
Analizzando ora la preoccupante connessione tra il riciclaggio ed il finanziamento del terrorismo, non possiamo negare che questo legame è oggi di drammatica attualità, soprattutto in seguito a quella serie di eventi che hanno turbato profondamente il mondo occidentale, e che hanno avuto inizio con i tragici fatti dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti.
È doveroso far notare che l’esistenza di presidi antiriciclaggio, laddove non ha funzionato, purtroppo, come deterrente contro le azioni criminali, indubbiamente ha avuto (e sta avendo sempre più) un ruolo di «chinese walls» sui generis rispetto all’ingresso dell’impresa terroristica (o fiancheggiatrice del terrorista) nel mercato del credito e della finanza tradizionali.
Oggi il terrorista deve servirsi dei (ormai non più ignoti) cosiddetti «sistemi bancari informali» (si pensi alle «Hawala» di matrice islamica), che consentono trasferimenti di denaro in tutto il mondo, evitando le normali procedure bancarie, senza lasciare tracce su supporti cartacei.
Se è vero che, in questi casi, il pericolo è costituito dalla impossibilità, a oggi, di più accurati controlli rispetto a quelli effettuabili sui circuiti tradizionali, è del pari acclarato che la capillarizzazione delle rimesse che si è costretti a effettuare in luogo di (ad esempio) normalissimi bonifici a fronte di forniture (false, in questo caso!) internazionali, crea fastidio alle organizzazioni in parola e le espone a maggiori rischi di emersione.
Tuttavia, contro i due fenomeni contemporaneamente si è appuntata una maggiore attenzione da parte degli organismi nazionali ed internazionali. Due esempi emblematici, il «Patrioct Act» americano del 2001 e le «Nove Speciali Raccomandazioni del Gafi» del 2003, hanno preso atto, con misure senza precedenti nella storia delle economie mondiali, che il terrorismo consuma denaro prodotto anche da chi ricicla, e che questa spirale va stroncata sul nascere, a costo di limitare i diritti dei singoli.
Per gli studiosi va evidenziato che, in questo mischiarsi di «istituti giuridici penali», si ha quella che si definisce la «presupposizione» del riciclaggio; in altri termini, il riciclaggio diviene a sua volta (ed emblematicamente) «reato presupposto» necessario per finanziare altri reati, che toccano la vita delle persone e non più solo, meno percettibilmente, le loro economie.